Questo è un ritratto di Keyra, la
figlia primogenita di Garu-Dah, il capo della tribù dei Mordi
Sabbia, che prospera lungo la costa meridionale della grande isola
degli Orchi, in un grande villaggio per metà costruito sulle
scogliere e per l'altra metà nelle grotte al loro interno. Secondo
le convenzioni sociali degli orchi, le femmine sono libere di
decidere fin da piccole se occuparsi degli uomini, del marito, della
casa e della tribù o se divenire guerriere. Il giorno della scelta
avviene al compimento degli otto anni. Le femmine che abbracciano
l'arte della guerra vengono addestrate insieme ai maschi e con loro
vanno in battaglia senza differenza alcuna, se non che nessuna donna,
nemmeno se figlia di un orco di alto rango, può divenire capo o
condottiero. Keyra rappresenta una eccezione. Durante la
“battaglia della spiaggia nera" (una spiaggia di sabbia
vulcanica che si estende per dieci leghe all'estremo est dell'Isola
degli Orchi), quando la tribù dei Mordi Sabbia si trovò ad
affrontare uno attacco massiccio di Ghoul erranti provenienti dalle
foreste interne in cerca di territori da depredare, Keyra si ritrovò
isolata in battaglia insieme ad un gruppo di femmine e si vide
costretta a prendere il comando delle compagne per coordinare la
difesa del gruppo. Le sue scelte strategiche furono eccellenti, tanto
che non solo portò le compagne fuori dall'accerchiamento nemico, ma
condusse l'attacco finale guidando anche molti maschi orchi alla
vittoria. Keyra venne eletta capo battaglia dal consiglio degli
Anziani e messa al comando del primo gruppo di "orchesse
guerriere” mai creato. L'ascia che Keyra impugna è un'arma di sua
invenzione che viene usata da tutte le orchesse guerriere. E' dotata
di una impugnatura al termine dell'asta in modo da poter essere usata
con una mano e fatta mulinare attorno a sé con precisi e letali
movimenti ad ampio raggio, assecondati dalla rotazione di tutto il
corpo. Dagli umani, questa tecnica è chiamata con scherno “ascia
trottola”... ma chi l'ha vista in azione ha perso la voglia di
ridere. Keyra ha avuto un solo Orco che è stato in grado di
conquistare il suo cuore indomito. Il nome di quell'Orco è Gmor
Burpen, che si vanta di aver lasciato a Keyra, negli anni, una vera
fortuna come “dote della tenda”.
domenica 8 dicembre 2013
giovedì 7 novembre 2013
Le orchesse
Le
orchesse formano un pilastro fondamentale nella società degli orchi.
Poche di loro si uniscono ai maschi per la caccia e la guerra, anche
se alcune formidabili guerriere sono entrate nelle leggende
erondariane.
Esse si occupano, invece, delle abitazioni e della prole, che
gestiscono collettivamente con grande energia e piglio autoritario;
non esistono nuclei familiari, anche se la genealogia viene tenuta in
gran conto dalla tradizione orquina,
e i bambini vengono cresciuti ed educati in grandi gruppi gestiti da
un numero imprecisato di “madri”, con grande affetto e senso
materno ma anche inflessibile disciplina. Non esistono contratti
matrimoniali veri e propri, tranne che per alcuni capoclan
i quali arrivano a creare delle dinastie che portano il loro nome.
L'orchessa, quando entra in estro, si allontana dalla comunità e
monta la sua “tenda del
sudore” in località
isolate, dove attende l'arrivo dei maschi richiamati dagli effluvi
dei legni profumati e delle erbe aromatiche che lei brucia
nella tenda. Terminato l'accoppiamento, che può durare diversi
giorni, solitamente l'orchessa deruba il maschio di ogni avere e lo
abbandona nella tenda, stordito dai fumi e dal liquore di malto. Il
bottino così raccolto, chiamato tradizionalmente la “dote
della tenda”, viene
quindi donato a tutta la collettività. Le orchesse si rasano il
capo e si tagliano ritualmente i capelli; usano invece lasciare
crescere il folto vello ascellare e inguinale, che viene raccolto in
corte e robuste trecce. Di un'orchessa di facili costumi – ovvero
di una che monta la tenda
del sudore più volte al
mese – si dice che “si
fa afferrare per la treccia”.
martedì 27 agosto 2013
Nani Guerrieri.
Incontrai questo gioviale Nano lungo la strada che,
da Solian, conduce a Vetwadàrt, la Città
Vecchia imperiale. Era diretto al distretto minerario di Gøtcha-kun, le “caverne del fango”, alle pendici del Kârss.
Si fermò volentieri a fare due chiacchiere con me, cosa davvero strana per un Nano, e
accettò con entusiasmo di posare per un veloce ritratto. Era un Mastro Ferraio,
un fabbro, e portava la caratteristica protezione al braccio
sinistro, composta di lamine sovrapposte di algěfehre,
una lega metallica molto resitente e che non conduce calore. Mi colpì
particolarmente la sua “picca”, sicuramente antica, che lui disse appartenere
alla sua famiglia da generazioni e di cui si mostrò molto orgoglioso. Non era certo uno strumento di lavoro ma una
vera e propria arma da guerra: un martello
d’arme a becco di corvo, che i Nani Guerrieri utilizzavano nel combattimento
ai ferri corti e nel corpo a corpo. Ai nani, oggi, non è più permesso portare armi con
sé e io, in qualità di ufficiale imperiale, avrei dovuto sequestrarglielo; ma
era molto simpatico e il suo buon umore mi aveva contagiato. Lo lasciai andare, raccomandandogli
semplicemente di camuffare il martello, coprendolo con un cencio. I Nani non sono più guerrieri da secoli, da quando l’imperatore
Brevalaër Erondàr sconfisse definitivamente le forze insorgenti di Narohk il Forte e di Koulm “Maglio di Pietra”, in
una serie di epiche battaglie lungo le pendici dei monti del Suprelurendàr
settentrionale. I Nani, vinti, dovettero smantellare le loro armate e fare
giuramento solenne di non sollevarsi mai più in armi contro l’Impero. Come
gesto di magnanimità e riconoscenza, Brevalaër concesse loro il monopolio imperiale degli
scavi sotterranei per le estrazioni minerarie. Decisione poco lungimirante, secondo alcuni. Oggi, il Sindacato dei Nani
Minatori, diffuso in tutto l’Erondàr, è un’organizzazione più potente degli
eserciti dei Nani Guerrieri dei secoli passati, meglio organizzata delle
Falangi di Narohk e ben più temibile del maglio di pietra di Koulm.
lunedì 1 luglio 2013
La cattura dei Rhoyiik.
La prima
volta che m’imbattei nei cacciatori dei Sēnlinderhén (il Popolo delle grandi foreste del Suprendàr), non
compresi perché si ostinassero a dare la caccia ai grossi e feroci Rhoyiik, uccelli carnivori alti più di tre metri e
con artigli che potrebbero facilmente sventare un cavallo. La loro carne è dura
e fibrosa e mantiene un pessimo sapore con ogni tipo di cottura; le loro piume
lanuginose non sono adatte per fabbricare vestiti, cosa che poi al popolo delle
foreste non serve, vivendo in giungle umide e calde. Non capivo perché questi
intrepidi cacciatori organizzassero faticose e pericolose spedizioni nell’inospitale
Er’el Atant’ar (“il Martello del Sole”), l’immenso deserto che si
estende a sud nel Vhâcondàr, alla
ricerca di questi giganti dal pessimo carattere. Ne capii il motivo quando
soggiornai per un paio di lune presso i Wajeeh, una tra le più amichevoli tribù
dei Sēnlinderhén. In realtà
essi non uccidono i Rhoyiik ma catturano gli esemplari maschi sui
dieci/dodici anni di età, addormentandoli con frecce intinte nel succo di
bacche “portasonno”, come le chiamano loro. La pelle dei Rhoyiik è così
spessa e i loro muscoli così duri che i dardi dei cacciatori feriscono l’animale
solo superficialmente, dando però modo al sonnifero di agire efficacemente. Una
volta portati nel Suprendàr, il caldo umido della giungla, così diverso dal
caldo secco del deserto, addolcisce i Rhoyiik che possono essere
addestrati e utilizzati come cavalcature. Così come per i grandi pachidermi dei
Regni Meridionali, non vale la pena catturare i Rhoyiik da cuccioli e allevarli per un decennio e
oltre, in attesa che diventino abbastanza robusti da poter essere cavalcati; è molto
più conveniente catturarli in età adulta e addestrarli, considerando che un esemplare in buona salute può raggiungere facilmente i trenta anni di età. I Wajeeh hanno
da molte generazioni intrapreso un fiorente commercio con le satrapie berbere del Vhâcondàr, a cui forniscono corsieri perfettamente
addestrati, infaticabili e terribili nelle
battaglie campali. Ricordo che, quando i Wajeeh mi fecero montare uno dei loro Rhoyiik, nella giungla venimmo attaccati
da un giaguaro che avevamo involontariamente disturbato; la mia cavalcatura lo
fece a pezzi con gli artigli e il becco, senza darmi nemmeno il tempo di estrarre la spada!
venerdì 3 maggio 2013
La Lame Erranti.
Pur
essendo un luogo estremamente spiacevole da visitare, l’immenso deserto di Er’el Atant’ar, “il Martello del Sole”, che
si estende in quello che l’Impero chiama Vhâcondàr, il “paese vuoto”, ospita
meraviglie della natura che difficilmente si possono trovare altrove. Tra le più sorprendenti vi sono certamente le “Lame Erranti” che io ho incontrato
diverse volte durante le mie missioni come scout imperiale. Si tratta di enormi
rocce piatte di pietra nera, lucida e dai bordi taglienti, che fluttuano a mezz’aria
a volte da sole, a volte in larghi gruppi. Hanno l’aspetto di vele nere rovesciate
e, la prima volta che le vidi in lontananza, le presi per i Carri della Sabbia
delle feroci popolazioni nomadi che fanno la spola tra le oasi che punteggiano
il deserto. Nessuno, in tutto
l'Er’el Atant’ar, sa come si siano formate o da dove vengano e nessuno sa quale magia le faccia fluttuare e
spostarsi lungo itinerari che mutano continuamente, secondo i capricci dei khame. Esse si muovono pigre attraverso
il deserto piatto e roccioso, evitando le grandi distese delle dune di sabbia, mosse da
forze misteriose che si celano nella profondità della terra. Con i loro
vertici appuntiti solcano leggere la terra,
tracciando interminabili linee sinuose che si intrecciano tra loro e
creano dei fantastici disegni sul
terreno. Accade a volte, senza alcun preavviso, spesso quando si sono radunate
in grande numero, che esse prendano
velocità e sfreccino tutte in un’unica direzione, facendo fischiare l’aria e
producendo un suono udibile a decine di miglia di distanza. Quando le Lame
corrono, dicono gli abitanti del deserto, nessuno osa sbarrare loro il passo.
Si narra che l’antica civiltà dei Re della Sabbia sia crollata quando la loro
capitale, la leggendaria Er’al Sauant’al,
“la Sposa del Sole”, venne rasa al suolo in una sola notte dal passaggio di
un numero incalcolabile di Lame lanciate in una cieca e furiosa corsa verso il
nulla. Non so se quella storia sia vera o solo leggenda, ma io ebbi la mia
personale esperienza del devastante passaggio delle Lame durante un bivacco
notturno, sull’altopiano roccioso a sud dell’Ir’Elerki. Fui svegliato dal suono delle lame che
fendevano l’aria, le sentii arrivare molto prima di riuscire a vederle; il
fischio che producevano avanzando nell’oscurità era terrificante e per un
momento mi ricordò il terribile stridio del Legno dei Guerrieri, il
flauto che i Figli di Olhim suonano prima di lanciarsi in battaglia, per
seminare il panico tra le file nemiche. La mia guida ed io avemmo appena il
tempo di trascinarci con le nostre cavalcature su un’alta duna di sabbia, dove
saremmo stati al sicuro; le Lame sbucarono dall’oscurità sfrecciando sotto i
nostri occhi a una velocità stupefacente. Non ho idea di quante fossero quelle
figure nere che mi correvano davanti, a me sembrarono centinaia; centinaia di gigantesche
lame nere illuminate solo dal debole chiarore delle stelle. Il loro passaggio fu
breve, pochi minuti che a me parvero eterni. Mentre osservavo attonito la devastazione
della loro corsa, pensai che la leggenda della caduta di Er’al Sauant’al avrebbe anche potuto essere
vera e mi sorpresi a cercare di immaginare il cieco terrore degli abitanti della “Sposa
del Sole” durante quella terribile notte, in cui i khame vollero lanciare le Lame contro la
città addormentata.
giovedì 18 aprile 2013
Gli Impuri
Mi
imbattei in questo cadavere lungo un impervio sentiero sul Kârss, nel
Margondàr orientale, duecento leghe circa a sud di Solian. La sua pelle era
bianca come il sale ed era privo di alcuni particolari anatomici; non
sembrava umano ma neppure appartenere a qualcuna delle razze conosciute che
popolano l’Erondàr. Era sicuramente un guerriero; il fisico possente, la strana
arma che impugnava e l’equipaggiamento suggerivano che si trattasse di un membro
di una gilda di sicari. La freccia che lo aveva ucciso apparteneva a una delle
tribù di Ghoul che abitano le cavità carsiche di quelle montagne. Il veleno in
cui la punta era intinta non lascia scampo. Mi colpì particolarmente il suo
unico occhio, una piccola pietra bianca e liscia che gli era stata innestata
con un’operazione chirurgica. Particolare raccapricciante, il cappuccio di pelle che gli copriva
la testa e il volto gli era stato cucito direttamente nella carne,
probabilmente a seguito di una terribile cerimonia di iniziazione. Questo mi fece
tornare in mente i racconti di Alben sulle antiche gilde degli Impuri, mercenari che fornivano i loro
oscuri servigi al miglior offerente. Essi
– mi raccontava l’anziano mago - si nutrivano del sangue degli Abominii e da esso traevano
terrificanti poteri. Erano dediti alla
negromanzia e alle oscure arti del “Combattimento di Tenebra” e vivevano in
famiglie i cui membri si accoppiavano tra loro per non disperdere i poteri. Ciò
causava, spesso, la nascita di mostri che però compensavano i difetti fisici con
un costante aumento dei poteri magici. Alcuni di loro sembravano
addirittura in grado di varcare il confine del reale per entrare nell’Inframondo e muoversi attraverso le
pieghe dello spazio. Decenni fa, i Luresindi avevano scovato, per conto dell’impero,
tutte le famiglie degli Impuri e annientato i loro membri fino all’ultimo… o almeno
così dicevano i rapporti dei Custodi della Luce. Quel corpo inerte e
muto era lì a smentire la versione ufficiale dei fatti.
domenica 24 marzo 2013
Il Popolo delle Rupi.
L’impero erondariano
si estende verso ovest fino alla grande catena montuosa del Suprelurendàr, oltre la quale cessa la
terra ferma e si apre l’infinita distesa d’acqua del Halwéshùre. I monti del Suprelurendàr
cadono a picco nell’oceano occidentale, creando vertiginose scogliere che
sembrano non avere fine e che non lasciano spazio a spiagge, baie o a qualsiasi
approdo naturale. Per centinaia di leghe, da sud a nord, dalla città di Nedvian fino al regno di Raghnar, ultimo baluardo occidentale sul
Vallo, l’occhio vede solo enormi faraglioni e altissime pareti di roccia
modellata dalla furia dei venti e consumata dall’incessante moto delle onde. Sembra
incredibile che vi possano vivere delle persone ma è proprio qui, in questo
mondo verticale abitato da milioni di uccelli marini, che
vive e prospera il Popolo delle
Rupi. Visitare questa gente, fiera
della propria indipendenza ma ospitale con gli stranieri, è un’esperienza che
non si dimentica facilmente; case, villaggi e intere città sono scavate nella
durissima roccia delle scogliere, che si
lascia appena intaccare dalla mano dell’uomo, e si affacciano spaventosamente
sull’abisso, lasciando i loro abitanti a penzolare su cime, carrucole e
lunghissimi ponti di corda che si muovono continuamente, spinti dai venti marini.
È sbalorditivo osservare i bambini, anche quelli di pochi anni, muoversi
agilmente su precarie passerelle sospese nel vuoto, senza dare alcun segno di
paura o di vertigini. Qui nessuno cade, nessuna cima si spezza, nessuna casa si
stacca dalla roccia e precipita nel mare. Questo almeno fino a quando non vi
facemmo visita Gmor ed io, per una missione esplorativa imperiale. Il mio
povero amico orco fracassò tante di quelle passerelle di legno e disfece un
così gran numero di ponti di corda che dovettero costruire una via ferrata
apposta per lui, da allora chiamata “la via di colui che schianta i ponti”.
venerdì 1 marzo 2013
Il Dio sorridente.
“Il Grande
Dio che sorride”. Così i nativi chiamano questa gigantesca statua di cui solo
parte della testa emerge dalle acque di un profondo lago vulcanico incastonato tra
i monti del Suprendàr settentrionale; queste
sono terre isolate dall’Erondàr, a sud della grande catena montuosa del
Margondàr e subito a nord delle estese e inesplorate foreste meridionali, che
poi scompaiono per lasciare il posto alla rovente distesa di sabbia del Vhâcondàr,
l’immenso “paese vuoto” che separa l’Impero dai favolosi Regni Meridionali. Si
tratta delle vestigia dell’antica religione di una civiltà ormai perduta, che prosperò in un
tempo remoto in cui gli uomini veneravano gli Antichi Dei e questi calcavano la
terra dei mortali; prima che il khame
morea, la “via degli spiriti”, si imponesse come unico credo e religione
ufficiale dell’impero. Ci sono innumerevoli storie attorno a questa statua;
alcuni indigeni dicono che gli Antichi la edificarono in una profonda gola dove si
gettava un fiume, bloccandone prima il corso e poi lasciando che le acque
colmassero l’abisso, immergendo quasi completamente il “Dio”. Altri sostengono
che la statua inizialmente fosse tutta all’aria aperta e che essa sprofondi
nell’acqua a un ritmo di poche braccia
ogni lustro. Un giorno, essi dicono, il benevolo sorriso del Dio verrà coperto e resterà solo il suo sguardo freddo e impenetrabile.
Sarà allora che il “Dio” si desterà, lascerà il suo sepolcro liquido e
ritornerà a percorrere il mondo degli uomini. Nel frattempo, i giovani locali
lo usano come piattaforma per i loro tuffi acrobatici e l’antico Dio sembra
sorridere divertito dall’allegro schiamazzo che lo circonda.
mercoledì 16 gennaio 2013
Il Vecchio Elfo e la Grande Thruda.
Il Vecchio Elfo e la Grande
Thruda per me sono sempre stati materiale da storie per bambini. “Bambini sciocchi”,
ci diceva nostra madre che, per questo, non ha voluto mai raccontarci del vecchissimo elfo che vaga senza sosta sulle montagne dell’Erondàr a cavallo di un’enorme
tartaruga, senza mai fermarsi nemmeno per dormire o mangiare. Grazie ai khame, la nostra balia Nanée, che si prendeva cura di
me e Myrva durante i frequenti e lunghi viaggi di studio di nostra madre, amava le “storie della buonanotte” e non perdeva
occasione per raccontarci qualche leggenda popolare prima di metterci a letto. Così io venni a
conoscenza della storia dell’elfo nero, un vagabondo senza nome e senza patria,
condannato da un’antica maledizione della sua gente a percorrere le catene
montuose dell’Erondàr, senza meta e
senza riposo, sul dorso di un’assurda cavalcatura che, invece, ha un nome: la “Grande
Thruda”, un’enorme bestia che, dice la leggenda, era già vecchia quando l'Impero era giovane. Il Vecchio Elfo non rivolge la parola a nessuno ma si dice che accetti le offerte di
cibo e bevande e, se ti tocca con la pietra bianca posta sulla punta del suo
bastone, puoi avere una fugace visione del tuo futuro. Una benedizione o una
maledizione, a seconda di cosa si riesce a vedere attraverso il breve spiraglio
che si apre nelle nebbie del tempo. La storia per bambini sciocchi di
Nanée divenne inaspettatamente realtà qualche anno fa, quando incrociai la vecchia coppia al
valico di Agerkhunde, nel Suprendàr
occidentale. Mi attraversarono la strada
con maestosa lentezza, sbucando da una fitta foresta di pini per dirigersi poi
verso la cresta rocciosa che sovrasta il passo. L’elfo sembrava effettivamente
molto vecchio, la sua lucida pelle era nerissima e aveva una lunga barba
candida che sembrava risplendere in contrasto con il suo corpo scuro. Restando fedele
alla leggenda, il Vecchio Elfo non proferì verbo; si limitò, quando tirai fuori
il mio quaderno di viaggio per fare un veloce schizzo, a lanciarmi un sguardo penetrante
con un‘espressione di profonda irritazione che ho reso solo parzialmente in
questo ritratto.
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