Sugli altipiani rocciosi
del Novelurendàr, poco più a nord di
Candarya, si estende il desolato deserto di Kochat
të mhëda, la piana delle “grandi ossa”. È un luogo
inospitale, arido e pietroso, senza vegetazione e con poca fauna ma esercita un
fascino particolare su ogni viaggiatore che si trova a passare da quelle
parti. Quasi ovunque, per decine di leghe in ogni direzione, spuntano dalla terra argillosa le ossa di animali
colossali, morti centinaia, se non migliaia
di anni fa. Le ossa, pietrificate dal sole e ripulite dal vento, svettano candide
come il gesso sul terreno rosso fuoco, creando un contrasto formidabile e difficile
da dimenticare. Mia madre, la quale è una Sapiente in botanica e storia naturale, mi disse
una volta che si tratta dei resti di enormi pesci che nuotavano in quello che un tempo era un vasto mare
interno. È una cosa a cui credo a fatica; mi sembra davvero
incredibile che nell’Erondàr, anche se in tempi remoti, vivessero creature
marine enormi come quelle che solcano le acque oceaniche a centinaia di miglia
dalla costa e che nessuno, a parte gli “uomini di sale” che abitano Nem-Hesi - la misteriosa città
galleggiante - ha mai visto. Da bambino mi rifiutavo di credere che il nostro
mondo potesse cambiare in modo così radicale; per me il mare, le montagne,
le pianure e le foreste stavano dove
erano sempre state. Era assurdo pensare altrimenti. Mia madre mi spiegò che il mondo, invece, muta in continuazione e a
volte cambia aspetto come una piana polverosa dopo un acquazzone, tanto da
diventare irriconoscibile. Le montagne crescono
come le piante, la terra si innalza sopra il mare e si inabissa tra i flutti,
secondo i capricci dei khame. Mia madre, quando tornava dai suoi lunghi viaggi
di studio, ci ha sempre raccontato
storie talmente fantastiche da risultare
inverosimili e mia sorella ed io non siamo mai stati molto propensi a credere a
tutto ciò che ci diceva. Tuttavia, passando sotto quelle alte volte di ossa
bianche, con il vento del deserto che si infilava fischiando tra di
esse, a tratti mi sembrava veramente di udire il suono delle onde del mare.
Mannaggia che mamma ha Ian!
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RispondiEliminaUna curiosità: mi sono sempre chiesto da che derivi "Varliedarto". Da qualche parte devo aver letto che tutti i nomi in "lingua antica" utilizzati in questa ambientazione, derivano dal latino. Se questo è ben visibile in parole come "Saevasecta" (persino a qualcuno che di latino capisce poco, come me), purtroppo l'origine delle altre (varliedarto, romevarlo) mi sfugge del tutto.
RispondiEliminaGrazie e complimenti vivissimi!
A-
L'etimologia dei termini in Lingua Antica non è sempre chiara. Romevarlo,Mahuōvarlo, Varliendàr e Varliedarto hanno in comune il termine vàrlo, "drago", di etimologia oscura. Nello specifico, Varliedarto è un titolo onorifico che ebbe origine durante il lungo periodo delle Guerre di Unificazione e che siginifica "vincitore, uccisore di draghi".
RispondiEliminaHo letto con vivo interesse i primi due albi e devo dire che la storia e l'ambientazione mi hanno divertito. I disegni di Matteoni risultano gradevoli quando disegna i personaggi umani e i mostri, ma i cavalli non li sa proprio disegnare. Date un'occhiata alle tavole del N.2, per esempio. Io ho 55 anni e sono cresciuto a pane e Tex e tutti gli altri eroi Bonelliani. Quindi ho una certa esperienza critica avendo letto tutti i fumettibonelliani degli ultimi 50 anni. Non me ne voglia il signor Matteoni, ma è importante che curi di più la fisionomia dei cavalli. I cavalli nella scuderia Bonelliana sono elementi fondamentali che caratterizzano uno stile iniziato dal grande Galeppini e che noi lettori non vogliamo rinunciare.
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