martedì 18 dicembre 2012

La Piana delle Ossa


Sugli altipiani rocciosi del Novelurendàr, poco più a nord di Candarya, si estende il desolato deserto di Kochat të mhëda, la piana delle “grandi ossa”. È un luogo inospitale, arido e pietroso, senza vegetazione e con poca fauna ma esercita un fascino particolare su ogni viaggiatore che si trova a passare da quelle parti. Quasi ovunque, per decine di leghe in ogni direzione, spuntano dalla terra argillosa le ossa di animali colossali, morti centinaia, se non  migliaia di anni fa. Le ossa, pietrificate dal sole e ripulite dal vento, svettano candide come il gesso sul terreno rosso fuoco, creando un contrasto formidabile e difficile da dimenticare. Mia madre, la quale è una Sapiente in botanica e storia naturale, mi disse una volta che si tratta dei resti di enormi pesci che nuotavano in  quello che un tempo era un vasto mare interno. È una cosa a cui credo a fatica; mi sembra davvero incredibile che nell’Erondàr, anche se in tempi remoti, vivessero creature marine enormi come quelle che solcano le acque oceaniche a centinaia di miglia dalla costa e che nessuno, a parte gli “uomini di sale” che abitano Nem-Hesi - la misteriosa città galleggiante - ha mai visto. Da bambino mi rifiutavo di credere che il nostro mondo potesse cambiare in modo così radicale; per me il mare, le montagne, le pianure  e le foreste stavano dove erano sempre state.  Era assurdo pensare altrimenti. Mia madre mi spiegò che il mondo, invece,  muta in continuazione e a volte cambia aspetto come una piana polverosa dopo un acquazzone, tanto da diventare irriconoscibile. Le  montagne crescono come le piante, la terra si innalza sopra il mare e si inabissa tra i flutti, secondo i capricci dei khame. Mia madre, quando tornava dai suoi lunghi viaggi di studio,  ci ha sempre raccontato storie talmente  fantastiche da risultare inverosimili e mia sorella ed io non siamo mai stati molto propensi a credere a tutto ciò che ci diceva. Tuttavia, passando sotto quelle alte volte di ossa bianche, con il vento del deserto che si infilava fischiando tra di esse, a tratti mi sembrava  veramente di udire il suono delle onde del mare.

5 commenti:

  1. Mannaggia che mamma ha Ian!

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  3. Una curiosità: mi sono sempre chiesto da che derivi "Varliedarto". Da qualche parte devo aver letto che tutti i nomi in "lingua antica" utilizzati in questa ambientazione, derivano dal latino. Se questo è ben visibile in parole come "Saevasecta" (persino a qualcuno che di latino capisce poco, come me), purtroppo l'origine delle altre (varliedarto, romevarlo) mi sfugge del tutto.

    Grazie e complimenti vivissimi!
    A-

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  4. L'etimologia dei termini in Lingua Antica non è sempre chiara. Romevarlo,Mahuōvarlo, Varliendàr e Varliedarto hanno in comune il termine vàrlo, "drago", di etimologia oscura. Nello specifico, Varliedarto è un titolo onorifico che ebbe origine durante il lungo periodo delle Guerre di Unificazione e che siginifica "vincitore, uccisore di draghi".

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  5. Ho letto con vivo interesse i primi due albi e devo dire che la storia e l'ambientazione mi hanno divertito. I disegni di Matteoni risultano gradevoli quando disegna i personaggi umani e i mostri, ma i cavalli non li sa proprio disegnare. Date un'occhiata alle tavole del N.2, per esempio. Io ho 55 anni e sono cresciuto a pane e Tex e tutti gli altri eroi Bonelliani. Quindi ho una certa esperienza critica avendo letto tutti i fumettibonelliani degli ultimi 50 anni. Non me ne voglia il signor Matteoni, ma è importante che curi di più la fisionomia dei cavalli. I cavalli nella scuderia Bonelliana sono elementi fondamentali che caratterizzano uno stile iniziato dal grande Galeppini e che noi lettori non vogliamo rinunciare.

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